Serie A, la noia al potere

21.10.2025

C'è un dato che racconta meglio di qualunque analisi tattica la settima giornata di Serie A: undici gol in nove partite. Un numero che ci consegna la giornata più avara di reti nella storia del campionato a 20 squadre. Ma il problema non è solo aritmetico: è estetico, culturale, quasi identitario.

La Serie A sembra essersi dimenticata cosa voglia dire "spettacolo". In un'epoca in cui Premier League e Liga offrono valanghe di gol, dribbling, accelerazioni e coraggio, il nostro campionato continua a rifugiarsi nel suo bunker tattico. Le squadre italiane, salvo rare eccezioni, giocano per non perdere, non per vincere. Il piano gara è sempre preciso, difensivo, calcolato. Ma con la palla, il coraggio svanisce: si cerca la via più facile, sempre sugli esterni, mai per vie centrali. Combinazioni scolastiche, lanci lunghi, zero rischio.

Il risultato? Pochissime azioni costruite, pochissimi gol su manovra.

Su undici reti complessive, cinque arrivano da palla inattiva, due da tiri da fuori - il lampo di Leão e la super giocata di Orsolini - una sola, quella di Nico Paz, da un'azione di vera ispirazione. Ecco il termometro di un campionato che sembra aver dimenticato la parola "creatività".

Il problema non è solo tecnico, ma anche sistemico. Le partite sono spezzettate, il tempo effettivo resta basso, l'intensità nel palleggio quasi inesistente. Si parla spesso del "difensivismo" del nostro calcio, ma forse il problema vero è l'assenza di "offensivismo": una mancanza di velocità, di idee, di ritmo nell'uso del pallone.

Eppure, in mezzo a tanta monotonia, qualcosa si muove. Lo fa il Como di Cesc Fàbregas, una squadra che rappresenta un'eccezione coraggiosa in un sistema che vive di prudenza. Gioca con idee chiare, cerca la via più ambiziosa e rischiosa, non rinuncia mai al fraseggio centrale. Il "quadrato" in mezzo al campo - Perrone, Caqueret, Nico Paz, Da Cunha - è un laboratorio tecnico in miniatura, e proprio lì nasce la differenza. Non a caso, il talento più cristallino del nostro campionato, Nico Paz, con 4 gol e 4 assist, è oggi il simbolo di un calcio italiano che, per un attimo, sembra respirare aria nuova.

Milan e Inter: le milanesi restano in piedi

Il Milan si è ripreso la vetta, vincendo una partita sporca, complicata e, per questo, pesantissima. La rimonta contro la Fiorentina vale più dei tre punti: vale come manifesto mentale.

Con metà squadra ai box, la vittoria racconta di un gruppo che ha ritrovato entusiasmo, anima e - soprattutto - Rafael Leão, tornato trascinatore con una doppietta che ha illuminato la serata di San Siro.

Ma anche qui, la cronaca non basta a nascondere i problemi: la partita è stata decisa da un rigore dubbio, frutto di un VAR che sta diventando uno dei nodi critici di questa stagione.
Non è la tecnologia il problema, ma l'uso che se ne fa. Troppi interventi, troppe on field review, troppa confusione. Lo strumento del progresso rischia di diventare l'ennesimo freno.

La Fiorentina, invece, resta prigioniera di sé stessa.
Pradé e Pioli si assumono le responsabilità, ma il vero limite è strutturale: la squadra gioca bene, ma non incide. È scolastica, timida, senza slancio. Manca quel "click" che trasformi una prestazione discreta in una vittoria.

Passando alla metà nerazzurra di Milano, il successo dell'Inter all'Olimpico non passerà alla storia per il suo fascino, ma dice molto. Dice che l'Inter è ancora la squadra da battere.

La formazione di Chivu - ormai saldamente dentro la sua idea di calcio - ha mostrato nella prima mezz'ora una superiorità netta, tecnica e mentale. Il palleggio, la gestione dei ritmi, la capacità di alternare verticalità e possesso: tutti tratti da grande squadra.

I nerazzurri hanno dimostrato di saper soffrire. Nel secondo tempo, quando la Roma è salita di tono, i ragazzi di Chivu hanno saputo chiudersi, difendersi bassi, ma sempre mantenendo la sensazione di controllo. Non c'è mai stato un momento in cui l'Inter sembrasse in balia dell'avversario. Le seconde linee (i due attaccanti di riserva, in particolare) hanno alzato il livello medio della rosa, segno che il club ha lavorato per completare un gruppo già solido.

Per la Roma, invece, il primo tempo non è stato ottimo. Nella ripresa, però, i giallorossi hanno reagito, hanno creato, hanno avuto occasioni - con un Dovbyk che ha sbagliato un gol clamoroso - ma non hanno saputo concretizzare.

Nessuno più di Gasperini sa che nel calcio di vertice, questo pesa enormemente. Il tema del centravanti è diventato centrale: l'ucraino e Ferguson hanno realizzato 1 gol e 2 assist in due. Veramente troppo poco. L'assenza di un riferimento efficace in area penalizza tutto il sistema offensivo.

La Roma resta una squadra viva, con spunti, ma lontana dall'essere una vera contendente.
Il compito di Gasperini ora è quello di stabilizzare l'andamento, dare una base solida, evitare che la squadra viva di picchi e crolli. Perché il potenziale c'è, ma senza equilibrio mentale rischia di restare inespresso.

Napoli e Juventus: cantieri aperti e identità smarrite

Il Napoli di Conte è una squadra che ancora non si conosce.
Le assenze (Hojlund, McTominay, Lobotka) pesano, certo, ma ciò che colpisce è la sensazione di ricerca continua, di un'identità ancora fluida e indefinita.
Conte alterna moduli e interpreti, tenta esperimenti, ma l'impianto non è ancora organico. L'energia del suo calcio non si è ancora tradotta in automatismi.
Conte dovrà trovare presto il modo di far coesistere il suo pragmatismo con l'esigenza di un gioco più fluido, perché il Napoli di oggi è un ibrido: non ha più la leggerezza dello scorso anno, ma non ha ancora la solidità del suo allenatore.

La Juventus, invece, sembra bloccata in un limbo. La sconfitta con il Como non sorprende chi guarda davvero le partite: la Juve è una squadra fragile, in costruzione perenne, tatticamente confusa.

Tudor ha provato a cambiare qualcosa, soprattutto senza palla, ma con il pallone il copione è sempre lo stesso: costruzione lenta, mancanza di idee nell'ultimo terzo di campo, incapacità di trovare la giocata giusta. E i problemi difensivi - sui piazzati, sui contropiedi e nelle letture di reparto - continuano a ripetersi, come un disco rotto. Il parallelo con il Marsiglia di Tudor è inevitabile: anche lì la squadra faticava a mantenere equilibrio e lucidità.

Oggi la Juventus dà la sensazione di non sapere cosa vuole essere.
Vuole difendersi o proporre? Vuole verticalizzare o palleggiare?
La società, per ora, osserva. Ma se il trend non dovesse cambiare, il tema panchina potrebbe tornare presto d'attualità.

Atalanta-Lazio: lo 0-0 meno 0-0 della giornata

Nel deserto di gol di questo fine settimana, Atalanta-Lazio è paradossalmente una delle partite più vive di tutte, uno 0-0 che ha avuto ritmo, intensità e almeno la sensazione costante che potesse succedere qualcosa. Anche se, in fin dei conti, è un punto che sta bene a entrambe.

La squadra di Juric ha fatto la partita, con Lookman sempre acceso e un paio di occasioni nitide neutralizzate da un Provedel tornato ai livelli migliori. La Lazio ha sofferto, ma ha avuto le sue fiammate in ripartenza, trovando qualche buona trama.

È finita senza reti, ma non senza contenuti: uno 0-0 che, in un turno da archiviare in fretta, è sembrato quasi una boccata d'aria.

Un calcio che si accontenta

La settima giornata non è solo la fotografia di un fine settimana sfortunato. È lo specchio di un campionato che si accontenta, dove un pareggio vale più di un rischio, dove la paura di perdere è più forte della voglia di vincere.

E mentre altrove il calcio si evolve, in Italia continuiamo a cullarci nella retorica del tatticismo.

Il pubblico, però, si stanca. Gli stadi restano mezzi vuoti, i giovani guardano all'estero, le partite diventano esercizi di prudenza. Forse è il momento di cambiare paradigma: non per abbandonare la nostra identità, ma per rimettere lo spettacolo al centro.

Perché senza show, senza gol, senza emozione, resta solo la noia. E la Serie A, di noia, ne ha già abbastanza.

- Nicolò Mencarini


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