Ogni domenica la stessa litania: invece di parlare di calcio, bisogna parlare di arbitri. E l'episodio scoppiato in Milan–Lazio è l'ennesima dimostrazione di un sistema che si è infilato da solo in un vicolo cieco, dove la tecnologia — nata per chiarire — finisce per confondere e screditare. Quanto accaduto a San Siro non è un semplice errore:...
Serie A, dieci giornate e nessuna certezza: il bello (e il brutto) dell'equilibrio
Altro turno di Serie A pieno di cose da dire, da annotare, di sorprese, di proiezioni, ma soprattutto un turno che – dopo dieci giornate – ci consegna un campionato ancora senza padroni. Non siamo ancora a un terzo di percorso, eppure il racconto è già intriso di contraddizioni: cadute impreviste, fatiche inattese, lampi di grande calcio alternati a blackout improvvisi.
È un campionato in cui chiunque può battere chiunque, ma in cui nessuno riesce davvero a prendersi la scena per più di una settimana. Ogni vittoria sembra subito seguita da una frenata, ogni entusiasmo da una smentita. E in questo equilibrio instabile c'è forse la vera cifra di questa Serie A: la sensazione che la differenza la stia facendo la testa più che i piedi.
La prima di Spalletti: un debutto da Juventus
Il sabato del nostro campionato ci ha concesso il debutto di Luciano Spalletti sulla panchina della Juventus, nel giorno dei 128 anni del club. L'esonero di Tudor e la chiamata del tecnico toscano – contratto fino a fine stagione, clausola sul piazzamento Champions in Serie A, un all-in reciproco – hanno rappresentato la scossa che serviva per rimettere in carreggiata una squadra ferita.
E Spalletti ha debuttato in condizioni tutt'altro che semplici: trasferta a Cremona, contro una delle rivelazioni del campionato, squadra solida, verticale, capace di difendersi e contrattaccare con ferocia. Una Cremonese che aveva perso solo contro l'Inter, e che preoccupava per quelle che erano state le fragilità della Juve di Tudor: vulnerabile sulle palle inattive e sulle ripartenze.
Il nuovo allenatore si è trovato di fronte un esordio pieno di trappole, senza Yildiz e Kelly, con un solo allenamento alle spalle. Eppure, la Juve ha vinto, e questo era l'obiettivo primario. Due successi consecutivi dopo la striscia che aveva costretto all'esonero Tudor, un passo che riporta i bianconeri nelle zone alte e – soprattutto – restituisce un'immagine più coerente con le proprie ambizioni.
La "spallettata" immediata è arrivata già al momento delle scelte: schierare Koopmeiners come difensore sinistro nel pacchetto a tre, un modo per alzare la qualità della costruzione e aggiungere un centrocampista occulto alla manovra. Una decisione coraggiosa, ma funzionale.
Nel resto del campo, Kostic e Cambiaso hanno risposto con le prestazioni più convincenti della loro stagione: il primo ritrovando gol, gamba e fiducia, il secondo firmando la rete del momentaneo 2-0 e confermandosi come uno dei simboli della nuova Juve.
Davanti, Vlahovic e Openda hanno alternato errori e buone giocate: il serbo ha sbagliato qualche occasione ma si è messo al servizio del collettivo, mentre Openda ha dimostrato di poter essere la seconda punta più adatta per questo sistema.
È stato, in sintesi, un debutto positivo, una serata che riaccende entusiasmo e senso di direzione. Ma che al tempo stesso ribadisce quante cose ci siano ancora da fare: aggiustare meccanismi, migliorare automatismi, ricostruire fiducia. Spalletti lo sa: la Juve può risalire, ma dovrà farlo con continuità, senza illusioni di corto respiro.

Napoli e Como, due visioni che si incrociano senza accendersi
Dal debutto di Spalletti si passa a Napoli-Como, partita che si preannunciava scintillante e che invece ha offerto tutt'altro: uno 0-0 cerebrale, tattico, ragionato.
Conte e Fabregas, nel post-partita, si sono detti soddisfatti. E in parte avevano ragione: entrambe le squadre hanno confermato identità e principi. Ma è mancata la scintilla.
Il Como, in particolare, ne esce fortificato. È andato al Maradona senza snaturarsi, ha provato a imporre il proprio gioco, ha mostrato coraggio e visione. Fabregas ha espresso la sua rabbia solo per non averla vinta, e questo è il segnale di un gruppo che ha ormai interiorizzato l'ambizione del suo tecnico. Persino l'errore dal dischetto di Morata non cancella la sensazione di una squadra in crescita: solida, organizzata, capace di giocarsela ovunque. Certo, il problema del centravanti spagnolo resta evidente: ha perso feeling col gol e non riesce a incidere neppure quando gioca per la squadra. Douvikas, oggi, sembra un passo avanti.
Sul fronte Napoli, il discorso cambia. Conte può essere parzialmente soddisfatto: secondo clean sheet consecutivo, imbattibilità casalinga mantenuta, segnale di solidità dopo settimane complicate. Ma la verità è che la squadra fa fatica ad accendersi.
Quando si tratta di prendere in mano la partita, di imporre la propria superiorità tecnica e mentale, il Napoli non riesce a farlo. Troppa lentezza nel palleggio, poca brillantezza davanti, una sensazione di blocco che attraversa tutto il gruppo.
Le due gare a porta inviolata sono arrivate grazie ai rigori parati da Milinković-Savić (prima a Lecce, poi proprio a Morata), più che per una ritrovata impermeabilità difensiva. Il rientro di Rrahmani aiuterà, ma serve molto di più: serve ritrovare l'anima del Napoli campione. Quella che mordeva, che dominava, che accendeva il ritmo. Ora è un Napoli che sopravvive, non che impone.

Atalanta, segnali d'allarme
La giornata si era aperta con la prima, brutta sconfitta stagionale dell'Atalanta. Non solo per il risultato, ma per il tipo di prestazione: vuota, spenta, priva di idee.
Fin qui Juric aveva tenuto la barra dritta, tra mille difficoltà: la fine dell'era Gasperini, l'addio di Retegui, il caso Lookman, una lunga serie di infortuni. Nonostante tutto, la Dea era rimasta viva, in movimento, propositiva. I pareggi erano figli di sprechi, non di rassegnazione.
Ma la sensazione, ora, è cambiata. Questa sconfitta segna una china discendente preoccupante: la squadra fatica a creare, fatica a segnare, e sembra aver smarrito la leggerezza con cui cercava soluzioni.
Sabato l'Atalanta non ha praticamente mai tirato in porta. È mancata l'energia, è mancato il coraggio, è mancata l'idea di calcio. Juric dovrà riflettere: la Champions incombe, e la trasferta di Marsiglia contro il De Zerbi bresciano rischia di diventare uno spartiacque. Dopo lo 0-0 con lo Slavia, serve una risposta forte, una prestazione identitaria. Perché oggi la Dea, più che una squadra in difficoltà, sembra una squadra che non si riconosce.
Milan - Roma, il clou del weekend: due squadre e due verità
Il clou di questa giornata era Milan-Roma. Una partita intensa, bella, giocata a ritmi alti e vinta soprattutto dal Milan, che conferma la propria solidità mentale e tattica. Per la Roma, invece, è una sconfitta amara ma non sterile: brucia perché arriva dopo una prestazione importante, ma lascia anche tracce positive per il futuro. Solo l'infortunio di Dybala– che dovrà fermarsi per tre settimane – rovina un po' la serata e apre nuove incognite.
A San Siro si è vista una partita da raccontare, più che da riassumere. Nei primi 35 minuti la Roma ha giocato il suo miglior calcio della stagione: convinta, aggressiva, preparata da Gasperini con lucidità e coraggio. Il tecnico ha scelto la formula offensiva più convincente: Dybala e Soulé larghi, Cristante a fare l'incursore centrale, quasi un centravanti ombra. Senza Ferguson e con Dovbyk in panchina, la Roma ha costruito nove situazioni da gol nei primi venti minuti, dominando tatticamente e mentalmente.
Il Milan, invece, faticava a uscire, orfano di giocatori-chiave come Pulisic e Rabiot, indispensabili per qualità e palleggio.
Ma la Roma ha sprecato: tra le parate di Maignan e una certa mancanza di cinismo, ha confermato il suo problema più grande: non segna abbastanza. La Roma sa giocare, sa costruire, ma non sa colpire.
E allora, come spesso accade nel calcio, il castello è crollato d'improvviso: contropiede da manuale, Leao che spacca il campo, inserimento perfetto di Pavlovic – in pieno stile Gasperini, paradossalmente – e Milan avanti. Da lì, la partita è cambiata.
Per venti minuti, tra il 39° e il 58°, il Milan è stato un fiume in piena: Svilar miracoloso su Leao, Ricci e Fofana vicini al gol, un palo di rimpallo di Nkunku. Poi l'equilibrio, fino alla gestione finale, solida e consapevole, dei rossoneri.
La Roma esce sconfitta ma in crescita. È una squadra viva, preparata, convinta, che crede nel suo allenatore. Il Milan, invece, esce con una vittoria "allegriana", da squadra matura, capace di adattarsi, soffrire e colpire quando serve. È una squadra trasformata: più forte mentalmente, più squadra dentro e fuori dal campo. Il lavoro dell'allenatore, l'impatto dei nuovi e una società più strutturata stanno dando frutti. Non sarà la più brillante, ma è solida e consapevole: qualità che in Serie A valgono oro.

Hellas Verona - Inter, tra buona sorte e carattere
L' altra grande storia della domenica è quella di Verona, dove l'Inter ha rischiato grosso e ha vinto solo al 93', su un'autorete. Fortuna o cinismo? Forse entrambe le cose.
Eppure, l'episodio del fallo di Bisseck su Giovane, con Doveri incerto su quale cartellino estrarre, lascia qualche dubbio: l'Inter ha beneficiato di un pizzico di indulgenza arbitrale.
Ma il punto non è quello: è che l'Inter ha avuto un ottimo approccio, ha segnato un gol bellissimo (Calhanoglu per Zielinski, gesto tecnico da applausi), ma poi si è un po' accomodata. Come se, sbloccata la partita, avesse pensato che il resto venisse da sé.
E invece questo campionato non perdona: l'Hellas è imprevedibile, diverso da quello dell'anno scorso ma ancora pieno di energia, una squadra che lotta, corre, pressa. Orban e Giovane hanno talento e gamba, ma devono diventare più concreti sotto porta. Se cominciano a segnare, Verona smette di guardarsi le spalle.
L'Inter, invece, ha pagato la giornata storta delle punte: Lautaro e Bonny sottotono, Pio Esposito più vivace ma ancora acerbo. Nulla di preoccupante, ma un segnale chiaro: serve il rientro di Thuram per ridare profondità.
La lezione di Verona è semplice: in questo campionato non ci si può rilassare mai. Nemmeno per un tempo. La vittoria, però, resta pesante: tre punti che fanno respirare, anche se con un piccolo campanello d'allarme.

Fiorentina - Lecce, profondo viola
Il risultato più sorprendente della domenica è arrivato a Firenze, dove la Fiorentina ha perso 1-0 in casa contro il Lecce. Un colpo duro, quasi simbolico.
Merito ai salentini, che hanno affrontato l'occasione con coraggio e lucidità: il Lecce ha visto la preda sanguinante e l'ha azzannata: niente paura, niente calcoli, solo fame. Vittoria meritata, ossigeno e prospettive.
Ma il discorso più delicato riguarda ancora una volta gli arbitri. Rapuano aveva fischiato un rigore per la Fiorentina su un contatto leggero ma reale tra Ranieri e il difensore, poi richiamato dal VAR, ha cambiato idea. Un caso da manuale di cattivo utilizzo del mezzo: se l'arbitro vede e giudica un contatto da rigore, e il replay non mostra un errore evidente, si deve avere il coraggio di non cambiare decisione. È la credibilità del ruolo a risentirne, prima ancora del risultato.
Detto questo, la Fiorentina non può aggrapparsi agli episodi. Ha giocato male, ancora una volta. Ha sbagliato troppo, ha prodotto poco, ha mostrato una fragilità ormai strutturale. Pioli – ormai esonerato – aveva provato di tutto: centrocampo muscolare, tecnico, misto. Nulla ha funzionato. Il gruppo è svuotato, la piazza è esasperata. Anche giocatori di valore, come Kean o Gosens, sono irriconoscibili. Solo De Gea si salva dalla mediocrità generale.
La sensazione è che serva un cambio di spirito prima ancora che di nomi. Qualcosa si è rotto e non basterà un semplice scossone per ricomporlo.

Il fascino dell'incertezza
Dieci giornate sono poche, ma bastano per capire che questa Serie A non ha padroni, e forse nemmeno gerarchie stabili. È un campionato che cambia volto ogni settimana, che accende entusiasmi e spegne certezze con la stessa rapidità. L' Atalanta che cade, La viola che crolla, la Juve che riparte, il Napoli che si ritrova ma non brilla: ogni partita è un frammento di un racconto collettivo ancora in costruzione.
E se il calcio italiano, per anni, è stato abituato alle dinastie e ai cicli lunghi, quest'anno sembra suggerire un'altra trama: quella dell'equilibrio, dell'imprevedibilità, della fatica e della resistenza.
Forse non vedremo quattro squadre in un punto fino a maggio, ma potremmo finalmente vedere un campionato che si decide per dettagli, per coraggio, per idee.
E allora sì, finché dura, godiamoci questa incertezza. Perché dentro l'incertezza, alla fine, c'è tutto il fascino del calcio
- Nicolò Mencarini
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