Più libri, più liberi?

12.12.2025

Il caso di Passaggio al bosco risveglia la coscienza storica del Paese, riproponendo temi cruciali per la democrazia nonché per il dibattito politico odierno.

Dal 4 all'8 dicembre si è tenuto a Roma, come di consueto, il festival nazionale della piccola e media editoria, un evento cruciale finalizzato a promuovere nomi meno noti in un mondo, quello dell'editoria italiana, sempre più in difficoltà. Oltre al calante numero di lettori, lo strapotere del gruppo Mondadori, primo in termini di vendite, unito alle logiche delle grandi distribuzioni, crea non poche difficoltà alla sopravvivenza delle piccole realtà e degli scrittori emergenti, i quali faticano a competere con i numeri dei "grandi". L'editoria italiana, già provata da queste dinamiche strutturali, cerca in questo festival una vetrina per le realtà meno note. Purtroppo però, anche quest'anno, l'attenzione del dibattito anziché focalizzarsi sulla crisi di un settore importante come quello dell'editoria, è stata dominata da una controversia di natura politica.

Già l'anno scorso, la discutibile direzione artistica di Chiara Valerio, oltre a far arrabbiare numerosi addetti ai lavori, aveva fatto notizia per l'invito di Leonardo Caffo, mettendo in luce, ancora una volta, le contraddizioni interne al femminismo italiano. Questa volta la ragione per cui si è sentito parlare di un festival altrimenti, purtroppo, poco considerato, è stata la presenza della casa editrice Passaggio al Bosco. Se allora oggi in Italia pubblicare un romanzo o un saggio è diventato un privilegio per influencer e attori in crisi di mezz'età, poco importa. Ancora una volta le vicende hanno imposto di parlare d'altro.

LA VICENDA

La situazione è oramai abbastanza nota. Inizia il 3 dicembre quando Zerocalcare afferma di non voler più presenziare al festival vista la presenza della casa editrice in questione per un semplice e lineare motivo delucidato in un post: "Purtroppo ognuno c'ha i suoi paletti, questo è il mio: non si condividono gli spazi con i nazisti". Da qui l'inizio di una subordinazione che, tra i vari, vede aderire il Comune di Roma, Anna Foa, Alessandro Barbero, Antonio Scurati, Christian Raimo e tanti altri. L'intento è quello di condannare fermamente ogni forma di apologia o propaganda agli ideali fascisti che la presenza di Passaggio al bosco cercherebbe di diffondere. Durante la fiera allora alcuni editori decidono di organizzare uno sciopero di trenta minuti in cui coprono i propri banchi e si dirigono vicino allo stand incriminato intonando "Bella ciao". In aggiunta, quasi tutte le case editrici decidono di affiggere nel proprio stand un volantino che specificasse la natura antifascista della propria linea politica ed editoriale.

Tra manifesti, simboli ed espliciti comunicati, quasi tutti hanno sentito il bisogno di esplicitare la propria condanna verso gli ideali nazi-fascisti.
Il risultato? Una gloriosa vittoria. Un compatto movimento popolare ha boicottato Passaggio al bosco, che dalla sua, viste le potenti proteste, ha addirittura deciso di chiudere anticipatamente il proprio stand issando bandiera bianca e chiudendo definitivamente i battenti. Il regolamento della fiera è stato aggiornato, la casa editrice non ha trovato appoggio nemmeno nel mondo di destra, che ha voluto distanziarsi nettamente dalle idee diffuse dalla casa editrice.
Questo, forse, per qualche perverso motivo, era quello che i protestanti si aspettavano. Inutile dire che le cose sono andate ben diversamente.

Passaggio al bosco è stato uno degli stand più visitati, vendendo molti più libri di quelli che poteva mai sperare, attirando inoltre fieri simpatizzanti (evidentemente poco inclini al mondo della lettura), volti ad esibire il proprio sostegno a questi militi della cultura di destra. Anche Francesco Giubilei, presente con la sua Giubilei Regnani Editore, ha approfittato della questione per fare clamore, difendendo il diritto di Passaggio al Bosco a presenziare e accusando altri editori, che a suo avviso, proponevano esaltazioni al comunismo di guerra e allo stalinismo, da condannare anch'essi.
Facendo però, un passo indietro, è utile riflettere seriamente sui temi messi in gioco dalla vicenda. Qual è il fulcro della questione? È solamente l'ennesimo luogo di battaglia politica tra destra e sinistra o sono presenti in gioco categorie di pensiero più fondamentali?

FORME DI PROTESTA

Senza troppi giri di parole, tra tutte le polemiche fatte dalla sinistra negli ultimi tempi, questa è una delle più sensate. Non chiama in causa solo un'astratta lotta tra fascismo e antifascismo, non è solo retorica ma una questione che, tra le varie cose, richiama principi costituzionali. Tuttavia, da un punto di vista legale, nè le autorità né la direzione di Plpl sono potute intervenire per estromettere Passaggio al bosco dalla fiera. La presenza all'evento infatti non è su invito, dunque in questo la direzione artistica ha poco potere di fronte alla richiesta di Passaggio al bosco a partecipare. È possibile prendere parte alla fiera semplicemente presentando una domanda alla direzione, che poi assegna gli stand in ordine di presentazione alle prime 500 case editrici. Tuttavia, il punto divisivo rimane l'articolo 24 del regolamento della fiera, il quale limita la possibilità di partecipazione agli editori che rispettano i principi della Costituzione. La questione diventa allora di rilevanza maggiore. È la presenza di Passaggio nel bosco un tentativo di diffusione di materiale fascista, potenzialmente eversivo, dunque anti-costituzionale? Si può legittimare il fascismo in nome del pluralismo democratico? L'antifascismo esiste effettivamente come un valore costituzionalmente sancito o si è esaurito nel contesto storico in cui aveva senso parlarne?

Indubbiamente i contenuti della casa editrice non cercano solamente di promuovere il pensiero di intellettuali di destra (o così considerati dalla destra stessa). Se infatti il problema fosse la vendita dei libri D'Annunzio, Junger o Tolkien, la polemica non esisterebbe. Se però nel catalogo figurano "Decima Flottiglia Mas" (di Junior Valerio Borghese), "Fascismo rivoluzionario", libri di Leon Degrelle, pamphlet vari di ex soldati delle SS e addirittura le lampade che Himmler regalava ai propri soldati, beh è evidente che si tratti di qualcosa di diverso.

In questo caso, la replica della destra di una sinistra non liberale, che non accetta un contraddittorio e che finisce per usare lei stessa dei mezzi ritenuti "fascisti", non ha affatto senso. Difatti non è stata impedita la partecipazione di Passaggio al bosco che ha svolto regolarmente i propri lavori, inoltre, è legittimo esprimere il proprio dissenso e la propria lontananza da simili idee. Legittimo si, sensato? Forse no. Lungi da voler difendere in qualche modo la casa editrice in questione, quel che emerge da questa polemica è il fatto che per l'ennesima volta la sinistra finisce per dare popolarità a ciò che intende delegittimare (proprio come successo con Vannacci), ricreando artificialmente l'atmosfera di una cultura perseguitata. In questo senso, l'antifascismo come riflesso incondizionato diventa paralizzante. Non perché i valori siano sbagliati, ma perché la forma attraverso cui vengono enunciati non produce l'effetto sperato, anzi, viene cavalcata dalla destra che a sua volta accusa la sinistra di vedere ovunque il pericolo di fascismo. In questo modo è facile per la destra far apparire la sinistra datata, difensiva, moralistica; nel frattempo la sinistra sembra non riuscire a radunarsi attorno a valori ulteriori.

La questione, se non altro, porta la riflessione su un ulteriore nodo spinoso che riguarda più in generale l'azione democratica. Rispetto, infatti, a censura, partecipazione politica o concessione di spazi culturali, quanto la democrazia può permettersi di aprire il confronto? Il pluralismo democratico, in nome della tolleranza, non rischia di rimanere vittima delle sue stesse virtù? Di fronte al caso limite di pericolo di collasso istituzionale, può una democrazia farsi antidemocratica?

EGEMONIA CULTURALE E DEMOCRAZIA MILITANTE

Le domande messe a tema ci portano innanzitutto nel cuore dell'annosissimo discorso sull'egemonia culturale, che affonda le radici nel pensiero gramsciano.
Il concetto nasce all'interno della sinistra marxista e conosce una più recente articolazione tra gli strutturalisti di sinistra. Questi vedono nella società – dalla scuola alla famiglia, inclusi tutti i sistemi sociali e istituzionali – una serie di regole di normalità che tendono ad avere un'intrinseca logica conservatrice. Di conseguenza, anche laddove la sinistra governa, la società e la mentalità delle persone risulterebbero di destra.

È da tempo, oramai, che è invece la destra a lamentare come invece sia la sinistra a detenere l'egemonia culturale, denunciando dunque una scarsa diffusione dei testi di molti pensatori o letterati accostabili al pensiero di destra. La critica, inoltre, prende spesso di mira il potere che la sinistra esercita in diversi ambienti della società, come la magistratura, le università, l'editoria, il cinema e numerosi altri settori. La destra fa perciò spesso leva sull'ostracismoche, in questi contesti, la sinistra applicherebbe a qualunque pensiero tradizionale o conservatore, etichettandolo come "fascista" ed escludendolo di conseguenza dal dibattito.
È interessante notare come entrambe le parti si considerino detentrici di questo primato culturale, che, a loro avviso, impedirebbe il pieno sviluppo e confronto democratico.

C'è da dire che negli ultimi anni, la sinistra ha frequentemente fatto ricorso all'accusa di fascismo come strumento per etichettare ed escludere dal dibattito pubblico determinate figure, a volte giustamente, spesso abusando di questa possibilità. Questa dinamica appare particolarmente evidente nelle realtà molecolari della società, come le associazioni culturali o le università, divenute ormai teatro di costanti polemiche e proteste preventive ogni qualvolta venga invitata una voce dissonante. Si tratta di una tendenza al conflitto che, lungi dall'attenuarsi, sembra essersi acutizzata nel tempo.A ciò si aggiunge inoltre un'asimmetria di giudizio laddove all'interno di quegli stessi baluardi culturali sedicenti progressisti, raramente si levano critiche altrettanto aspre verso opere o interventi che, seppur di segno opposto, propagano messaggi intrisi di odio di classe o di genere. Simile doppiopesismo trova la sua giustificazione teorica, spesso inconscia, nell'applicazione forzata del paradigma della "democrazia militante".

Tale forma che la democrazia dovrebbe prepararsi ad assumere in caso di bisogno, fu pensata dal filosofo e giurista Karl Lowenstein per proteggere le istituzioni democratiche dai totalitarismi del Novecento. Lowenstein parte dal presupposto per cui il fascismo sia una deriva possibile di qualsiasi sistema politico e non solo un regime politico contestualizzato localmente e temporalmente. In quest'ottica, ogni democrazia possiede in sé il pericolo di degenerare in fascismo. Quest'ultimo non possiede obiettivi concreti né politiche specifiche, ma si configura semplicemente in una tecnica volta alla conquista del potere. La risposta delle democrazie non può allora che essere inefficace laddove si oppongono al fascismo gli ideali; serve porsi sullo stesso piano dell'avversario per contrastarlo sul suo terreno: bisogna contrastarlo con un ulteriore tecnica e rendere perciò la democrazia militante.

Così pensata, la democrazia avrebbe allora il diritto, se non il dovere, di adottare misure eccezionali e illiberali (come anche la censura preventiva) per difendersi da chi minaccia le sue fondamenta. La strategia fascista possiede un fine eversivo e anti-democratico che non viene sempre ricercato tramite il sovversivismo, anzi è una forma di eversione che si serve della legalità. D'altronde è così che nazisti e fascisti sono saliti al potere, sfruttando le falle del sistema democratico liberale, partecipando al gioco democratico con l'intento di abbatterlo.

Nonostante la riflessione di Lowenstein potrebbe portarci ad una ben più ampia e complicata riflessione sui presupposti e i limiti costituzionali dello stato di diritto, ne trarrò solamente degli insegnamenti utili alla vicenda in questione. La sinistra si trova spesso a giustificare le proprie azioni con il ricorso alla lotta al fascismo. L'uso improprio e spesso fuorviante del termine, ha però progressivamente svuotato pericolosamente di significato la parola, tanto da non risultare più credibile anche laddove il ricorso avrebbe senso. Ciononostante, il passato del nostro paese, nonché la partecipazione politica che moltissimi militi fascisti hanno continuato ad avere nell'Italia repubblicana, non rende affatto sciocca la messa in questione del tema. Tuttavia, tanto in un'ottica strategica quanto in una aderente ai cambiamenti della società, avrebbe forse più senso mettere da parte il ricorso ad istanze illiberali in virtù dei principi dello stato di diritto. Ad oggi, francamente, il pericolo di deriva fascista non sembra esserci e la questione, andrebbe semmai rinviata ad un futuro in cui tale pericolo sarà concreto. È indubbio che nel Novecento nazisti e fascisti abbiano potuto prendere il potere proprio perché inizialmente sottovalutati, e una volta raggiunta la leadership, la democrazia militante non ha più potuto assolvere al suo compito. Tuttavia, il contesto storico e sociale odierno è profondamente mutato e fatta eccezione per qualche nostalgico esaltato, la destra attuale è profondamente capitalista e liberale; non ha dunque alcun interesse concreto a distruggere la struttura democratica.

Dalla sua, invece, la sinistra odierna sembra agire perennemente in questo stato di emergenza morale, arrogandosi il diritto di decidere chi sia legittimato a parlare e chi no, trattando l'avversario politico non come un competitore in un'arena plurale, ma come un nemico pubblico da neutralizzare prima ancora che possa esprimersi.
In questo quadro, l'antifascismo non sembra essere più capace di strutturare efficacemente il senso comune e se la sinistra continua a impiegarlo come unico valore attorno al quale operare il proprio orizzonte discorsivo, c'è un problema a monte. Questa strategia, oltre a mancare di aderenza al contesto attuale, si è rivelata controproducente anche sul piano pratico, come dimostra l'esito della polemica in questione.

Infatti, seppur per ragioni condivisibili, non ha tutto ciò provocato esattamente ciò che si voleva evitare, diffondendo ancora di più i contenuti di Passaggio al bosco? Non dovrebbe allora la sinistra aggiornarsi su altri valori, piuttosto che chiamare continuamente in causa i valori dell'antifascismo, che seppur condivisibilissimi, appaiono astratti e oramai facilmente scardinabili dalla destra?

Pensatori democratici come Kelsen e Bobbio, che avevano vissuto sulla propria pelle le catastrofi del nazi-fascismo, avevano capito bene le radici profonde del tema e in questo senso mi sento di sottoscrivere le loro intuizioni: tradire e macchiare gli ideali democratici in virtù di una salvaguardia dei principi, può valere, al massimo, per casi limite, altrimenti è sempre e comunque meglio difendere la democrazia nella sua legalità, evitando di creare inutili martiri e senza cedere alle tentazioni dell'autoritarismo. La questione è tanto strategica quanto etica. Gli ideali democratici di giustizia e libertà hanno la forza del tempo, se anche dovessero perdere popolarità per un momento, rinasceranno più forti una volta vissuta la negatività dell'alternativa. In sintesi, è necessario tollerare gli intolleranti.


- Alessandro Marotta


Il caso di Passaggio al bosco risveglia la coscienza storica del Paese, riproponendo temi cruciali per la democrazia nonché per il dibattito politico odierno.

John Locke, padre del costituzionalismo liberale e della stipulazione dei cosiddetti diritti naturali, all'interno del Secondo trattato sul governo del 1690, ha descritto lo Stato civile (nella sua idea di stampo monarchico-costituzionale) come un contratto sottoscritto tra società e sovrano, al fine di una convivenza pacifica tra gli uomini.