Ogni domenica la stessa litania: invece di parlare di calcio, bisogna parlare di arbitri. E l'episodio scoppiato in Milan–Lazio è l'ennesima dimostrazione di un sistema che si è infilato da solo in un vicolo cieco, dove la tecnologia — nata per chiarire — finisce per confondere e screditare. Quanto accaduto a San Siro non è un semplice errore:...
Il calcio schiacciato dal caos arbitrale: la VARiabile impazzita
Ogni domenica la stessa litania: invece di parlare di calcio, bisogna parlare di arbitri. E l'episodio scoppiato in Milan–Lazio è l'ennesima dimostrazione di un sistema che si è infilato da solo in un vicolo cieco, dove la tecnologia — nata per chiarire — finisce per confondere e screditare. Quanto accaduto a San Siro non è un semplice errore: è un corto circuito, un fallimento procedurale che mette in discussione l'intero impianto di governance arbitrale.
Il punto di partenza è semplice: La mano di Pavlovic è un episodio su cui si può discutere. Nel calcio che vorrei, non è mai rigore. Nel calcio di oggi, è quantomeno un 45% sì e un 55% no. Non è quello il problema. Il problema è tutto ciò che ci gira intorno: la gestione VAR, la comunicazione, le giustificazioni, il tentativo di salvare la faccia più che di applicare la logica. È qui che diventa tutto gravissimo.
L'arbitro Collu ha sostenuto al microfono che avrebbe fischiato un fallo in attacco: un fallo che non c'è. Una trattenuta che non esiste. Un appiglio creato dal nulla, più utile a coprire il varista Di Paolo — che lo ha richiamato al monitor — che a spiegare la decisione. Siamo al paradosso: invece di prendersi la responsabilità e dire "Secondo me non è rigore", si cerca il cavillo, la scappatoia per salvare capra e cavoli. Così facendo, però, si finisce per prendere in giro le persone. E nel calcio, quando la percezione di ingiustizia supera la soglia, si perde credibilità. Non è un dettaglio: è la base del patto emotivo tra sport e tifosi.
Il cortocircuito finale — niente rigore, ma neppure il calcio d'angolo per la Lazio — è il simbolo perfetto di una confusione strutturale. L'azione finisce con un fallo per il Milan: un abominio procedurale che porta sì alla conclusione, probabilmente, più giusta… ma attraverso una strada completamente sbagliata. E quando la strada è sbagliata, il risultato non basta più.

La moviola in campo è il prossimo passo
Qui emerge un altro nodo: il potere del VAR. Un potere crescente, spesso invisibile, quasi mai responsabilizzato. I varisti ormai condizionano partite senza metterci la faccia. E c'è un problema psicologico, prima che tecnico: l'idea che, se non intervieni, rischi di essere accusato, quindi meglio una chiamata in più che una in meno. È il varista che ha voglie di protagonismo. È il VAR che detta la linea per paura delle polemiche. È il varista importante che sovrasta l'arbitro giovane, come Collu, intimorito dal peso della cabina di controllo, anche senza pressioni dirette.
Ma così non funziona. Così si crea un arbitraggio schizofrenico, dove la tecnologia non aiuta la partita, ma la domina dall'esterno.
L'assenza di conoscenza del gioco
Il problema più grave, però, è un altro: molti arbitri non conoscono il gioco del calcio. Lo applicano, non lo interpretano. Lo sezionano, non lo capiscono. E questo genera mostri. Il rigore dato per il fallo di mano su un tiro che finisce in curva — come il tentativo di Pobega in Udinese-Bologna— è l'emblema di un criterio completamente scollegato dalla realtà del campo: non c'è vantaggio, non c'è svantaggio, non c'è impatto sull'azione. E allora cosa stai punendo? La teoria? Il letteralismo? La geometria? Non il calcio, certamente.
Stesso discorso per il contatto nel derby fra Pavlovic e Thuram: un pestone casuale mentre il cross parte e va dall'altra parte del campo. Un episodio fuori contesto rispetto al gioco, ma trasformato in rigore perché il regolamento, letto senza competenza calcistica, sembra suggerirlo. È l'idea che ogni contatto sia punibile, indipendentemente dalla sua rilevanza. Una follia.
L'assenza di conoscenza del gioco porta a un paradosso ormai insopportabile: anche quando la tecnologia sceglie bene, noi continuiamo a vedere il male. E l'episodio di ieri sera del gol annullato a David in Juventus–Udinese lo ha dimostrato ancora una volta.
Nel giro di pochi minuti si è passati dalla certezza di un errore clamoroso — il frame del fuorigioco semiautomatico tracciato su Bertola invece che su Palma — alla scoperta che, invece, la decisione era corretta. Ma il punto non è la decisione. È la sensazione. È quella specie di riflesso condizionato per cui ormai ogni chiamata sembra sbagliata, distorta, manipolata dalla prospettiva o dal metodo. Anche quando il VAR funziona, non è più credibile. E questa sfiducia istintiva è il segnale più grave di tutti: significa che il sistema si è rotto molto prima della tecnologia.
Questa miscela micidiale — difetti di regolamento, direttive mal spiegate, mancanza di sensibilità calcistica — porta a ciò che oggi viviamo: una totale imprevedibilità, un arbitraggio governato dal caso. Non esiste più la coerenza. Non esiste più un criterio condiviso. Esiste solo l'episodio e la roulette con cui verrà interpretato.

Tornare alla semplicità del calcio
La soluzione, paradossalmente, è semplice: tornare al calcio. Tornare alle basi. Rimettere al centro il pallone, non la burocrazia.
Tocco il pallone? Non è fallo. Non lo tocco? È fallo.
Sul fuorigioco evidente, il guardalinee alza la bandierina immediatamente.
Sulla mano, si ritorna alla volontarietà.
Le simulazioni diventano da punire severamente.
Gli arbitri devono essere formati per conoscere il gioco, non solo il regolamento.
Non servono nuove regole: servono direttive chiare, applicate con buon senso e rispetto per il gioco. Perché nessuno di noi va allo stadio per assistere a un seminario di legislazione calcistica. Andiamo per vedere una partita. E se ogni domenica ci ritroviamo invece a discutere di tecnologia, procedure, microfoni aperti, linee, casistiche e paradossi… significa che il calcio si è perso. E un calcio così, governato dal caso e dalla paura, non può pretendere fiducia. La buona fede la si concede. Il processo no. E finché il processo resterà questo, ogni giornata produrrà un nuovo disastro annunciato.
- Nicolò Mencarini
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