John Locke, padre del costituzionalismo liberale e della stipulazione dei cosiddetti diritti naturali, all'interno del Secondo trattato sul governo del 1690, ha descritto lo Stato civile (nella sua idea di stampo monarchico-costituzionale) come un contratto sottoscritto tra società e sovrano, al fine di una convivenza pacifica tra gli uomini.
Femministe a processo. La fine del femminismo social
Violazione della privacy o prezioso servizio di giornalismo?
Così si divide il web dopo la pubblicazione, su Il Fatto Quotidiano, delle chat rese note da Selvaggia Lucarelli. Le conversazioni emergono nell'ambito dell'indagine su Valeria Fonte e Carlotta Vagnoli, denunciate da Serena Mazzini, che le influencer avevano preso di mira per essere presente in gruppo Telegram, e da A.S., definito da loro un "abuser" e successivamente protagonista di un tentativo di suicidio.
Dalle chat trapelano numerosi commenti discutibili, difficilmente giustificabili come semplici momenti di goliardia privata – soprattutto se si considera il metro di giudizio con cui Vagnoli & co. da anni alimentano vere e proprie gogne mediatiche contro i propri "nemici". In questo contesto emerge anche l'esistenza di una "lista nera", redatta per avviare una mobilitazione di massa volta a colpire persone ritenute "pericolose" che comprende un elenco di nomi che va da Liliana Segre a Sergio Mattarella, passando per Fedez, Selvaggia Lucarelli e persino Michela Murgia, senza risparmiare nessuno. "La cancel culture è l'arma più potente che il femminismo abbia avuto negli ultimi dieci anni" scrive Vagnoli in una delle conversazioni.
Se queste chat hanno scioccato e deluso molti fan, ad uno sguardo più attento non sorprendono affatto. A parte qualche licenza linguistica o volgarità di troppo, le dirette interessate non hanno scritto nulla che, a mio avviso, non fosse già evidente nella loro attività pubblica. Diviene però massimamente chiaro un fatto: da quelle conversazioni emerge non solo un clima di livore, ma un vero e proprio meccanismo di accanimento programmatico, in cui l'attivismo si confonde con la volontà di demolire chiunque non sia allineato.

Improvvisamente – forse ancora in troppi pochi – qualcuno sembra finalmente essersi svegliato, riconoscendo la vera natura di Vagnoli, Fonte & co., che ovviamente hanno provato a difendersi dalle accuse. Questa volta, però, la protesta appare più timida del solito. Carlini ha rivendicato le proprie posizioni, lamentandosi di essere stata citata ingiustamente nella vicenda, non essendo lei tra le indagate. Vagnoli, insolitamente laconica per i suoi standard, ha pubblicato alcune storie instagram, per poi eliminarle in fretta. Fonte, invece, ha provato a giocare la carta del "siamo state prese di mira perché donne", per poi giustificare il mobbing realizzato nei confronti di A.S. sostenendo di non aver bisogno di un giudice: la colpevolezza, a suo dire, era già cosa nota. Forse, però, ora appare finalmente chiaro quanto queste giustificazioni e atteggiamenti abbiano stancato. E quanto, da anni, il modus operandi di queste figure si riveli poco onesto intellettualmente.
La domanda che allora sorge spontanea è: davvero nessuno se ne era accorto prima?
Da anni queste figure pubblicano libri con case editrici prestigiose, partecipano a festival, vengono invitate in programmi televisivi e si presentano come voci autorevoli di un certo femminismo mediatico. Eppure solo ora sembra emergere una riflessione critica sulla reale autorevolezza intellettuale di chi si erge a portavoce di determinati temi e, soprattutto, sull'onestà e sulle modalità con cui questi "confronti" vengono condotti. È triste, oggi, vedere molti salire sul carro della condanna e replicare gli stessi atteggiamenti che Fonte e Vagnoli hanno riservato per anni ai propri "nemici". Eppure è necessario ricordare che quel modo di comportarsi non è un'eccezione: è da sempre il loro metodo, pubblico e privato. Attraverso i "call-out" hanno diffuso accuse, menzogne e messaggi d'odio, spacciandoli per attivismo.
Quando Fonte scriveva che il suo sogno era "una stanza piena di uomini decapitati", perché nessuno si indignava?
Quando si sosteneva che i presunti "abuser" dovessero essere additati e pubblicamente accerchiati, perché non si è pensato, piuttosto, di ricordare a queste persone i principi elementari del diritto?
I loro messaggi d'odio andavano bene finché non toccavano figure come il Presidente della Repubblica, Cecilia Sala e Michela Murgia?
Mi auguro sinceramente che questa vicenda – per quanto spiacevole – non alimenti la più becera delle reazioni, quella del giubilo vendicativo, ma apra finalmente uno spazio di riflessione sui contenuti culturali e sociali (o presunti tali) che da anni ci vengono propinati su Instagram come modelli di pensiero. Il mio pessimismo, tuttavia, mi porta a immaginare solo due possibili scenari: o queste persone, col tempo, verranno pienamente riabilitate, oppure saranno semplicemente rimpiazzate da altri volti, pronti a ripetere lo stesso copione. I social, soprattutto nell'ambito del femminismo mediatico, pullulano di individui che impiegano lo stesso linguaggio, le stesse dinamiche, gli stessi strumenti di delegittimazione.
Si è tollerato tutto questo in nome della causa, senza che ci si rendesse conto di quanto, in realtà, abbia finito per danneggiarla radicalizzarla, svuotandola di credibilità e complessità.

Tuttavia, oltre a tutto ciò, non si può non considerare la questione riguardante l'appropriatezza nel rendere pubbliche chat private che, per molti aspetti, poco hanno a che vedere con l'indagine in corso. Non tutte le persone citate, infatti, risultano coinvolte nel procedimento giudiziario da cui sono emerse le conversazioni – basti pensare alla Carlini. Certo, le chat diventano pubbliche come esito di un'inchiesta che riguarda alcune delle dirette interessate; pertanto, almeno nel caso di Fonte e Vagnoli, forse, non si può parlare propriamente di violazione della privacy.
Inoltre, per certi versi, in quanto personaggi pubblici che hanno costruito la propria immagine e credibilità attraverso l'esposizione mediatica, è legittimo che il pubblico conosca anche ciò che rivela la distanza (o la coerenza) tra il messaggio e la persona.
In fin dei conti il nodo centrale è uno: fino a che punto un personaggio mediatico può invocare la tutela della sfera privata quando la sua esistenza pubblica si fonda sull'esposizione costante, sull'opinione, sull'indignazione?
È questo il paradosso del nostro tempo, in cui la linea tra ciò che è intimo e ciò che è pubblico si è assottigliata fino quasi a scomparire. Chi sceglie di fare della propria vita un racconto pubblico non può poi pretendere che il pubblico resti cieco di fronte alle contraddizioni di quel racconto.
Allora forse, in tutto questo clamore, la vera questione non è più chi abbia violato la privacy di chi, ma quanto ancora siamo disposti a confondere autenticità e spettacolo.
Probabilmente un maggiore margine di prudenza nel pubblicare materiale sensibile non sarebbe stato fuori luogo. Tuttavia, la legittimità o meno di rendere pubbliche conversazioni private resta una questione che spetta alla giurisprudenza.
Ciò su cui invece è lecito esprimere un giudizio è la qualità dell'informazione prodotta. E in momenti come questo si avverte l'urgenza di riaffermare, con voce più ferma, la necessità di un vero garantismo, proprio per tutelare anche chi, in passato, ha sistematicamente negato tali tutele agli altri. Solo così si evita di cadere nella stessa trappola morale che si vorrebbe denunciare. Solo così ci si sottrae a quel populismo rabbioso e logorante che da tempo avvelena l'informazione.

Insomma, la questione non sarebbe così grave se non fossero proprio loro le persone coinvolte. Se, da anni, la loro attività non fosse intrisa di cieco moralismo, di condanne sommarie e di una violenza simbolica esercitata soprattutto sul piano linguistico, se non avessero precedentemente loro avviato le stesse gogne mediatiche per obiettivi antipatici.
D'altro canto, riconoscere l'errore non giustifica il perpetuarlo a propria volta, e anche il giornalismo che seleziona in modo grossolano i passaggi più scioccanti di una chat privata e li sbatte in prima pagina non può dirsi un giornalismo sano. Non possiamo applaudire questo metodo solo perché, questa volta, a pagarne il prezzo sono personaggi che possono risultare antipatici.
Le chat, però, oramai esistono e sono pubbliche, sarebbe dunque ingenuo ignorarle. Il punto, dovrebbe essere allora cercare di non usarle come arma di vendetta, ma come occasione per guardare con lucidità alle attività mediatiche di chi da anni plasma il dibattito pubblico, chiedendoci se dietro l'immagine "impegnata" non si nasconda proprio quel volto oscuro emerso nelle conversazioni.
Possiamo prendere ciò che c'è di buono in questa vicenda partendo con l'affermare di aver scoperto sicuramente alcune cose.
Abbiamo scoperto che la cancel culture esiste davvero, e che queste persone se ne sono servite sistematicamente per "fare fuori" i personaggi non graditi.
Abbiamo visto che, improvvisamente, chi ha costruito la propria carriera sulla gogna ora si riscopre garantista, forse perché, per la prima volta, la pelle in gioco è la propria.
Abbiamo scoperto che non serve demonizzare il contraddittorio solo perché non ci piace, che il ricorso all'emotività non può sostituire il pensiero, e che il dissenso non è una colpa ma un elemento vitale del dialogo.
Abbiamo scoperto che la divisione netta tra "femminismo" e "anti-femminismo", costruita artificialmente intorno a questi personaggi, è crollata e non significa più nulla.
Abbiamo scoperto che allarmismo ed esibizionismo non fanno cultura, e che indignarsi non equivale ad essere progressisti.
Spero, infine, che si sia appreso a non parteggiare per riflesso, ma per coscienza. A non confondere la causa con chi se ne appropria. A distinguere la voce autentica da quella mediatica.
Perché solo da questa presa di consapevolezza, dal rifiuto di schierarsi per inerzia, può nascere qualcosa di nuovo:spazi realmente inclusivi, capaci di produrre confronto, pensiero e, forse, finalmente, vera cultura.
- Alessandro Marotta
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