Inter-Como era la partita più intrigante del weekend. È stata, per mezz'ora, la più interessante. Poi la differenza di dimensione ha preso il sopravvento.
Il Como di Fabregas voleva giocare "da Como": aggressivo, ambizioso, verticale. Ma contro l'Inter questa è una condanna più che un'idea romantica. I nerazzurri non vedevano l'ora: pressing alto contro pressing alto, meccanismi oliati da cinque anni contro una squadra che quei meccanismi ancora li sta costruendo.
I primi dieci minuti sono un assedio, abbastanza per riattivare Calhanoglu, Barella, Dimarco, Lautaro, Thuram — gente che contro Juve, Milan e Napoli, negli scontri diretti a blocco basso, aveva passato settimane a sbattere contro muri. Qui invece tornano a respirare.
Poi il Como migliora: da Cunha, Rodriguez, Perrone lavorano bene sulle seconde palle, Douvikas ha l'occasione del pareggio che pesa come un macigno. Ma il gap resta quello lì: di qualità, di malizia, di mestiere. Il 2-0 subito da calcio piazzato è il simbolo delle squadre che alle grandi devono ancora abituarsi: basta una disattenzione, basta un rallentamento mentale e la partita scappa via.
La vittoria dell'Inter è un avviso a chiunque voglia giocare a viso aperto contro la squadra più "meccanica" del Paese. Grande Inter, meno sprecona, più cattiva. E un Como che, paradossalmente, esce con una lezione e non con una bocciatura: coraggioso, ma ancora troppo leggero per sfidare il leone nella sua tana.